domenica 11 settembre 2016

COSE DA RICORDARE.

Il vestito di zara con la cerniera rotta da quando l’ho comprato
Il prima e l’oltre
L’orgoglio di chi ti conosceva quando non eri famoso
Passerotto di papà
Stai studiando?
Ti giuro, una cosa extrasensoriale
Il numero più importante non memorizzato sul telefonino
La bocca allappata
I biscotti al sesamo a colazione col latte
Lo shampoo bio che costa trentacinque euro
L’argilla che mi ordino su internet per lavarmi i capelli
L’ex fidanzata che tirano in ballo per scaricarti
I miei ex che mi amavano tanto e si sono tutti sposati prima di me
L’odore del puljeo quel giorno a Rocca sotto le prime pale eoliche
I pantaloni militari  e i sediolini non reclinabili della Saxò blu col numero di targa AY998ZE
Il bosco di castagni di Sturno e i cellulari che suonavano
Qualcosa di troppo grande da cui fuggire
La pizza con la rucola  e il parmigiano del Panzone che è sempre insipida
La margherita senza il basilico e la regina margherita con l’olio extra vergine
L’odore buono delle scorregge di Sherlock
I miei slip che non diventano mai bianchi nemmeno a sessanta gradi
Il bicchiere che sei andato a comprare perché avevi rotto il mio
Un’amicizia colorata come direbbero in certi paesi esteri
Il “pronto” disinvolto che mi preparo prima di risponderti
Una volta che non venissero da una situazione complicata
Sei sempre quella che non è arrivata nel momento giusto
Prima sono tutti liberi e senza legami
Una lettera che è una perla
La monta vaqera e due ore di lezione sui cavalli arabi prima di darmi un bacio
Chiedo un risarcimento.
Uno che non abbia una foto in bianco e nero su facebook
Scappa scappa, tanto ti prendo
La tastiera di questo pc che devo cambiare da due anni
Il male alla spalla che mi viene dopo un’ora al computer
Le tesi di laurea dei triennalisti,cinquanta pagine senza le note
Ora sto leggendo Latouche
Le paperelle di gomma gialla che stanno sul primo scaffale davanti a Canetti opera omnia
Il peso da cinque chili per tenere chiusa mezza finestra
Il collare di agata che si è arrugginito e sfila male
La maschera nuova che hai comprato e che non mi fa vedere bene mentre vado sotto
Tommaso che ha un momento di pausa con Ilaria
I camion che portano i vitelli al mattatoio
L’amore che non è mai venuto
I tuoi cinquemila sms sul cellulare che non voglio cancellare
Le volte che mi hanno detto: mi piaci da morire
Le persone che non puoi dimenticare perché su fb le puoi solo bloccare
Il clorexidin per Agatina che ha l’eritema da sole
Se io vivessi a Roma sarebbe diverso
Un lunedì mattina di settembre mi volevi portare alle Tremiti in elicottero
Il figlio che non hanno fatto con quella di prima e che faranno con quella subito dopo di te
Dopo il ’98, sposati, calvi e con la pancia
La via lattea quando non c’è la luna sul terrazzo
Le lettere d’amore che ho scritto a tutti quelli con cui sono stata
La foto di mia nonna col vestito bianco nella villa di Ariano
Gli otto  fratelli e  sorelle di mia madre
Saper deludere le aspettative
Il tuo amico di Vieste, il panino freddo e la piazza infuocata delle due
La pallacanestro, i cavalli, la vela.
Sono stato a Pamplona e non è così crudele quello che fanno ai tori.
Tu sei troppo per me
Io non ti merito
Restiamo amici
Sarò sempre geloso di te
Nessuno ti amerà come me
I dolori prima dell'aborto
Ci siamo iperfrequentati in questi giorni
Dove sei brutta stronza sto malissimo!
La telefonata di un’ora che hai fatto a Nicola mentre andavamo insieme al mare
Non mi piacciono le persone arriviste
Per i primi tre mesi mi hai chiamata Elena
Anche se indosso gioielli falsi nessuno ci crede perché mio nonno era un orefice
La tua faccia sollevata in ospedale quando hai saputo che il bambino era morto
I mocassini neri taglia quarantasette e il giorno dopo
Siamo persone diverse che hanno vite diverse
Solo tu non hai mai voluta
La frana della montagna di Montoro che nessuno ha mai risanato
Gli alberi del viale che si stanno ammalando
Il tasso con la coda bianca e nera che ho visto scappare nel vallone
Il melograno che non fiorisce sulla tomba di Mafaldina
La puzza di sigaretta che mi ha dato fastidio fino a trentasette anni
Per me la stratigrafia è una stronzata
Perché non fate un figlio?
Quelli che vennero da Grotta a donare il sangue per mia madre fino a Napoli
Mio padre dopo l’incidente era diventato tutto viola
La passione per le carte di  Bruno Contrada
Zio Franco che sapeva la Divina Commedia tutta a memoria perché aveva studiato dai gesuiti prima di impazzire
Le fettuccine burro e sugo di mio nonno da Marino a santa Lucia
La mascella che scrocchia ogni volta che mangio un boccone
Nel pumilene mi farei il bagno
Tuo cognato che mangia sempre con la bocca aperta
Il dolore un attimo prima della fine
Quando ti ho lasciato ci hai provato subito con la mia migliore amica
Le fotocopie in tedesco della parte monografica all’esame di storia greca
I libri che mi hai regalato.
Quelli  che non ti rispondo quando gli scrivi.
La lontananza, la tua situazione matrimoniale e il viver quotidiano.
Ci sono almeno dieci uomini che conosco e che mi evitano.
Adesso viene il periodo peggiore quello degli incarichi.
La letteratura civile e i lettori incivili.
Certi giorni solo accendere il computer mi toglie tutte le forze.
 Xanax, eutirox, eutimil, noritren: la mia normalità dipende dall’assunzione di inibitori dell’ anormalità.
Tutte le poesie e le lettere che mi hai strappato.
La faccia e il tono che avevi quando vinsi un premio di poesia.
Le bugie che ti ho detto mentre ero all’università.
In un anno sette esami e sei trenta e lode. Quelli che ti avevo detto di aver preso nei due anni precedenti.
Il libretto universitario nascosto sotto le mutande nell’ultimo cassetto del comò.
Quando ti ho sentita piangere in bagno perché avevi saputo che avevo lasciato il ragazzo che non ti piaceva.
Quando tornando sul pullman a casa da scuola e c’erano due che dicevano che stavi per morire.
Quando ti prese a calci e io mi misi in mezzo e ne presi uno dritto sul mento.
Due tonni che vanno a caccia sotto il mare e tutti i pesci che spariscono di colpo.
Prendere una medusa con le mani è facile, basta acchiapparla da sopra, da dove non punge.
Quelli con il retino per le meduse in spiaggia.
Napolitano e la scorta che controlla il mare prima del suo bagno.
I discorsi sul sé e le tirate sul centro.
La noia infinita dei soliti ti ricordi?.
Alzarsi fare colazione e rimettersi a letto fino alla sera.
La vergogna dei quattro euro a buono pasto.
I vicini di casa che litigano a bassa voce.
I fiori dell’aglio selvatico che mi hai portato dalla montagna.
Quando ho compiuto quarant’anni e nessuno mi ha fatto un regalo.
Le telefonate di Pio e i suoi lamenti perché ha un lavoro, un buono stipendio e un a carriera.
Le convocazioni del provveditorato e la sfilata dei morti di fame.
La scorta di Napolitano  e la serata di bossanova al Tartana.
I piedi blu sul terrazzo della casa.
Sette caffè a mattina per trenta giorni.
Il mal di testa quando arrivo al reparto luci dell’Ikea di Lancusi.
I viaggi che non ho fatto.
Le lingue che non so parlare.
Domani, domani, domani. Una vita di posticipi.
Gli addominali di Cavani.
Il buono del precariato è che non devi accompagnare i ragazzi in gita.
Due settimane su una poesia di Leopardi.
Le grandi attese e le enormi delusioni.

lunedì 8 agosto 2016

LA COMUNITÀ CHE NON C’È.



Quand’è che c’era la comunità? Forse quando eravamo bambini e tutto ci sembrava come immerso in un’ampolla colorata? O forse quando gli uomini hanno iniziato il loro delirante valzer intorno all’io?Io non l’ho mai vista questa comunità, ho ascoltato racconti, tante storie sul mio paese, ho visto le donne la domenica mattina prepararsi per andare a messa e sedersi nei primi banchi in chiesa, e gli uomini arrivare dopo, col cappello in mano, stare dietro, in fondo, come se quello che accadeva non fosse affar loro. Ho visto i funerali con la banda e le prefiche che si lamentavano per morti tutte annunciate e ho visto le veglie funebri intorno al letto del morto, volti scuri, pianti imprecisi, scialli neri.Poi ho visto i piccioni nelle gabbie con le ali spuntate per non farli volare, e i conigli, coi musi tremanti, che aspettavano solo la domenica, e loro nemmeno sapevano che c’era la domenica. E ho sentito le gambe che si irrigidivano mentre la contadina mi dava da stringerle e lei gli tagliava la gola a quel coniglio bianchissimo.La comunità i paesi, la civiltà contadina. Non mi incantate più con la nostalgia del ricordo, non mi avete mai incantata. Vedevo l’uomo vicino al camino, dopo il lavoro nei campi, che ruttava e bestemmiava per la fatica e la donna che ancora non smetteva di lavorare, che mangiava in piedi, vicino ai fornelli, come un mulo.Sentivo la puzza di morte, di sangue che appestava le case e la merda che invadeva ogni angolo, la mungitura delle vacche alle sette di sera, il sapore di quel liquido bianco sottratto ai vitelli per pascere noi, i figli dei padroni, larve piagnucolose e isteriche.Hanno detto che il lavoro era la sola libertà, la sola libertà è non fare niente, non vendere niente, non avere nulla da vendere.Dicono: la conoscenza è libertà, la parola è libertà. Tutti prodotti umani che dobbiamo in qualche modo smerciare con altri umani.Ma non lo sentite lo strazio che viene dal resto, da tutto quello che noi crediamo di guardare e non vediamo con i nostri occhietti piccoli, fumosi, di superficie?La terra non è la zolla sollevata dal trattore, quella è una parte, una minuscola parte di un mondo che non possiamo vedere, e allora sventriamo, distruggiamo, scaviamo. Noi riusciamo a distruggere le montagne, noi non abbiamo limiti, non vogliamo averne su questa terra.Vogliamo ogni giorno dimenticare il nostro limite inesorabile, la nostra finitezza e per farlo dobbiamo uccidere, consumare, distruggere, violare.Ma quale comunità? Quella forse dove le donne chinavano il capo davanti al marito, venivano vendute come oggetti con tanto di lista dotale? Quella dove non potevano passeggiare da sole per strada a meno che non erano pazze o puttane?Comunità: chiusura, nucleo, limite, esclusione. Questo e solo questo è comunità.Io sono di grotta, voi no, quelli di melito sono mangiarospi, quelli di ariano sono cornuti, quelli di mirabella sono ebrei perché fanno il mercato la domenica. Questa è la comunità.La tradizione, i matrimoni combinati, le coppie spente e grigie senza sorrisi, senza furori, senza felicità da esibire. Solo miseria e miseria, materiale e spirituale. Solo giudizi e sguardi di traverso e litanie e riti.E cani randagi magri, con le ossa da fuori, a cui non si gettano gli avanzi della domenica, la solita domenica con la solita carne per dimostrare il benessere. Resti che avrebbero sfamato animali morti di freddo e di fame, resti gettati nel sacchetto dell’umido perché da noi si fa la differenziata, a Napoli no.Comunità? Contadini con le pezze al culo che vendevano pure l’anima al farmacista e al medico di paese, sempre a testa bassa, sempre a ubbidire davanti e a bestemmiare da dietro. Servi dei servi.Mai un gesto comune, mai il bene comune, solo litigi per un confine, litigi fra fratelli, come fra caino e abele.Comunità, non è stato il terremoto a portarcela via perché non c’era mai stata. Pure sotto le macerie abbiamo cercato di salvare prima i nostri “cari” e poi, perché ci capitavano davanti, gli altri.Questo non è bene, questo non è amore. Questo è solo l’osceno spettacolo di una specie che si preserva, che non vuole estinguersi e che si riconosce nella legittima prole, si intenerisce per quattro adolescenti asfittici e morti e non alza un dito per chi, adesso, ora, sta morendo altrove.Ci hanno insegnato a stare dentro i nostri recinti, come noi facciamo con le pecore. E noi lì dentro, solo lì dentro scalpitiamo, ma, quando arrivano i macellai, abbassiamo lo sguardo e ci facciamo sgozzare e ci addoloriamo solo per la nostra fine, solo per noi che finiamo.

venerdì 5 agosto 2016

eldarissa: BREVE GUIDA AL CONCORSO. LA PROVA ORALE.

eldarissa: BREVE GUIDA AL CONCORSO. LA PROVA ORALE.

PICCOLA GUIDA AL CONCORSO. LA PROVA ORALE.

In questi giorni si stanno svolgendo le prove orali del concorso a cattedre, le prove, come molti di voi sapranno, si basano sulla progettazione e la realizzazione di un'unità di apprendimento, il cui argomento viene sorteggiato dal candidato il giorno prima della prova.Alcuni brevi consigli.1, Non iniziate con la solita lagna dell'inutilità delle TIC. La rete è un'enorme fonte, democratica, di conoscenza e di saperi, quindi utilizzatela e niente storie.2. I vostri power point, o le vostre presentazioni, in qualsiasi formato esse siano ( mi raccomando di evitare le famose lenzuolate di testo illegibile...!), dovranno essere calibrate su un'ipotetica classe, quindi niente inutili tirate teoriche ma pratica didattica applicata all'argomento che avrete in sorte, in un'ottica sempre, dico sempre, interdisciplinare.3. Il punto fondamentale dal quale partire sempre è l'analisi dei bisogni formativi del contesto classe in cui immaginate di operare, ergo non volate troppo alto, i ragazzi non sono studiosi di italiano o di diritto o di storia,4. Non date per scontate le competenze e le conoscenze pregresse ma prevedete sempre azioni di recupero e di rinforzo.5. Concentratevi sulla trama epistemologica della tematica in questione, evidenziando concetti chiave, parole chiave. ( es. Se debbo parlare della resistenza in Italia, la prima parola chiave sulla quale mi soffermerò sarà il concetto di Resistenza). Al tempo stesso, non vi chiudete nella turris eburnea della disciplina, ricordate la vostra funzione primaria e cercate di essere il più aperti possibile alla multidisciplinarietà ed alla collaborazione con i vostri colleghi.6. Utilizzate con sapienza e con criterio ciò che già sapete e siate chiari, schematici e concreti, pur rimanendo fermi sulle vostre posizioni di pensiero in campo pedagogico. Rendetele chiare nella loro concreta applicazione.7. Ricordatevi che la scuola pubblica è soprattutto scuola dell'inclusione, quindi date spazio ai BES ed ad ogni ipotetica situazione di disabilità o anche solo di disagio.8. Prevedete molte lezioni laboratoriali ma vere, ossia lezioni in cui tutti insieme si effettuano ricerche, si discute di ciò che si è trovato, si fa differenza su cosa è utilizzabile e cosa no.9. Non dimenticate mai la trasversalità della disciplina "Cittadinanza e Costituzione" e fate riferimento ad essa negli obiettivi.10. Pensate di avere davanti a voi degli alunni e non una commissione, la vostra è la progettazione di un'UDA, pensate ai ragazzi, quindi.in bocca al lupo!!!

domenica 19 giugno 2016

LA FEMMINA (TROPPO) NUDA. OSSERVAZIONI SULLA CINQUINA DELLO STREGA.


Ho letto ‪#‎lafemminanuda‬ della Stancanelli in circa tre ore, davvero poco per un libro che mi aspettavo bello, dolente e, chissà perché, profondo. Invece ci ho messo una serata, stupendomi, ad ogni pagina, di quanto in fretta tutto mi passasse davanti, senza mai colpirmi. 

Diamine, l'idea è intensa!

Si trattava di affrontarla con una scrittura lucida e ferita, di scavare nell'inferno che ci portiamo dentro e che è pronto ad esplodere da un istante all'altro, nelle miserie di cui non ci crediamo capaci e che, invece, ecco comparire nei nostri gesti, all'improvviso, azioni di cui noi stesse ci vergogniamo e ci vergogneremo per tutto il resto della vita...

Quindi un tema pulsante, carne e tagli, parti molli, esposizione. 

Ecco,se ci si aspetta di trovare tutto ciò, meglio lasciar perdere. 

Una donna, una scrittrice non può, non deve tradire il linguaggio femminile, invece la nostra autrice lo fa, e lo fa con un preciso scopo, quello di sembrare "moderna", o dovrei dire "alla moda". 

Un linguaggio sciatto, sporco, e non di quella sporcizia che rasenta il sublime o che lo rispecchia nel suo opposto. No, semplicemente piatto, stitico, a tratti inutilmente volgare, quasi banale. I dialoghi ( la bestia nera degli scrittori italiani contemporanei...) sono praticamente inesistenti, non perché non ci siano ma perché scompaiono in questo flusso che è nulla, che non è dolore, che non è respiro, che non è nemmeno tentativo di conoscenza di ciò di cui si narra. 

Questa donna, lasciata e tradita, non fa che piangere e bere eppure non si sente il calore delle sue lacrime né il puzzo di alcol nelle parole scritte. Dovrebbe far pena, dovrebbe farci sentire vicine a lei, oppure dovrebbe farci arrabbiare, invece annoia, annoia e basta. 

Scivola addosso questo libro senza lasciare che un senso di delusione, come un'occasione perduta, qualcosa che poteva essere e non è stato, non per scelta, ma per un limite fisiologico e psicologico che risiede in chi lo ha scritto.

Questo limite sta tutto, io credo, nell'incapacità di esporsi veramente, in una sorta di autocensura che non è del personaggio ma di chi narra e, prima ancora, di chi scrive. Non si può e non si deve raccontare una storia così con questa leggerezza che non è ironia né, tantomeno, distacco.Un vero peccato, una bella idea sprecata...

Giusto per chiarire ancora. 

Prendiamo uno Scrittore, un vero scrittore, non conta se sia maschio o femmina, leggiamo un brano: 

" E' solo che al mondo non esiste un tipo di sofferenza adatto a me, né il tipo di compassione adatto a te; non c'è parola al mondo che possa sanarmi; non posso disfarmi della penitenza - è una cosa che sta al di là della fine di tutto- è sofferenza inestinguibile, è come dormire troppo poco; è come tutto quello che non ha proporzioni. Io non chiedo nulla, perché non c'è nulla che si possa dare o si possa avere - com'è primitivo essere capaci di ricevere..."

 Ecco, queste sono le parole di una donna, una donna in conflitto con l'uomo col quale vive e col mondo stesso. 

Confrontate questa, che è Scrittura, con il libro di cui sopra. E poi mi dite...

sabato 28 maggio 2016

IL MONDO E' MORTO

Ringrazio per l'illustrazione Maria Teresa Sarno.

Il mondo è morto. facciamoci le condoglianze l’uno con l’altro. il mondo degli umani, degli uomini e delle donne è morto dopo un’agonia di centinaia di anni. forse è morto un giorno di febbraio del 1600, mentre giordano bruno bruciava sul rogo a campo de’fiori. o forse era già morto prima, quando la peste nel xiv secolo dimezzò la popolazione europea. o forse è morto un poco dopo, quando eleonora pimentél de fonseca fu impiccata senza mutande a piazza mercato mentre il popolo dei lazzari napoletani e sanfedisti le guardavano sotto il vestito. no, il mondo è morto molto prima, quando la logica ha preso il sopravvento in maniera strisciante e subdola sull’istinto. quando in nome della nostra presunta superiorità di specie, abbiamo iniziato ad allevare e ad uccidere, quando abbiamo deciso di costruire mura intorno alle città, insediamenti puzzolenti di merda e di piscio dove ogni spazio delimitava una solitudine, una casa abitata da altri morti che litigavano con i vicini per il confine, per le pecore, per la proprietà. la morte è un evento definitivo, e noi abbiamo bisogno solo di eventi definitivi, unici, senza scampo. per troppo tempo abbiamo creduto di poterci salvare, mentre invece non c’era alcuna salvezza e già stavamo morendo. abbiamo usato la filosofia per convincerci che sapevamo pensare, che sapevamo usare la testa e che, quindi, eravamo vivi. nella nostra testa non eravamo noi a muoverci, ma i vermi, le sinapsi erano il loro strisciare, la terra che spostavano. gli occhi già non c’erano più, e quello che abbiamo visto era solo una rappresentazione consolatoria, un’immagine che ci eravamo costruiti ad arte. siamo bravissimi a prenderci in giro, a illuderci della nostra vitalità curiamo i nostri corpi, produciamo merci, le acquistiamo e così ci riempiamo la vita. ma quale vita? la vita non c’è più in questo mondo, è fuggita via, è andata a nascondersi quando ha visto come volevamo usarla, che commercio intendevamo farne, come pensavamo di esporla, di metterla in ridicolo, di svilirla. il mondo è morto quando l’ultimo lupo è stato ucciso e appeso per la gola nel paese più disperso degli appennini. quando i pescatori hanno smesso di lottare alla pari con i tonni nel canale di sicilia, quando abbiamo costruito i lager dove alleviamo i polli che poi le nostre mamme danno da mangiare, slavati, bianchi, ai bambini, bianchi e slavati pure loro, senza anima, senza cuore, destinati a diventare altri morti e ora solo in fase di coma irreversibile. nessuno grida più, nessuno piange veramente, nessuno si abbraccia con vero calore. facciamo il funerale a questo nostro misero mondo. scambiamoci frasi su come eravamo buoni e bravi. portiamo lunghi vestiti neri adatti al lutto e stiamo in silenzio. spegniamo le comunicazioni, annulliamo le parole, che restino solo pochi gesti semplici e poche, pochissime cose, quelle essenziali. smettiamo di correre, tanto siamo morti, non facciamo progetti, non investiamo denaro. i morti non le fanno queste cose. i morti sono composti, silenziosi, dignitosi e veri, qualità che abbiamo perduto da troppo tempo per poterci definire vivi. solo la morte può renderci di nuovo belli e furenti. la morte non è una cosa brutta, la morte è pulizia, è rinascita e inizio. non ci ha uccisi nessuno, siamo morti da soli, guardando il nulla, pensando al futuro, accumulando o dissipando, muovendoci o stando fermi, a letto, per strada, vicino a un camino o ad una festa. nessuno ci ha ammazzati, o tutti. ora possiamo organizzare un bel funerale, un funerale di stato, un funerale mondiale. e poi stare fermi, immobili, austeri finalmente, finalmente dignitosi e innocenti. torneranno le selve sui nostri mostri, sulle strade, sulle case, e negli stessi cimiteri. e torneranno altri uomini, insieme agli animali, ai rovi. ed è chiaro che tutto questo noi che siamo morti non lo potremo vedere. ma dobbiamo lasciare questo mondo, dobbiamo liberarlo dalla nostra ingombrante presenza, togliergli le mani dal collo, lasciarlo respirare. si riorganizzerà più velocemente di quanto crediamo, il mondo, perché non è nostro, non lo è mai stato e solo noi abbiamo creduto di poterlo comprare. ma l’aria non si compra e nemmeno il vento, il mare, la neve. non si compra tutto questo immenso splendore del quale noi non partecipiamo, mai abbiamo saputo partecipare. smettiamola di agitarci e fissiamoci nella nostra posizione di defunti, sorridenti come gli etruschi, ieratici come gli egizi. scegliamo quella che più ci piace e diamoci pace perché siamo morti, finalmente e inesorabilmente morti.

martedì 24 maggio 2016

IL LATO DESTRO DELLA STRADA.

Santa Lucia e poi il numero civico. Avevo parlato velocemente al tassista salendo sull’auto a Piazza Garibaldi. Lui mi aveva guardata attraverso lo specchietto retrovisore mentre io come sempre cercavo la targhetta col suo numero di licenza e il suo nome. Poi aveva osservato ammiccante: “Lato destro?”. “Sì, lato destro, il palazzo ad angolo col Pallonetto”.L’accordo era stato fissato così, tacito e solido. E il percorso deciso, quello più corto. Corso Umberto, via Depretis, Maschio Angioino, un breve tratto di Marina e poi la discesa di Santa Lucia fino a casa.Sei euro e trenta a tassametro acceso. Santa Lucia non è una strada, non lo è nel senso corrente. Santa Lucia è un luogo di confine, un margine, un orlo sfilacciato che è stato malamente ricucito dopo un taglio. Al suo lato destro che, fino agli inizi dello scorso secolo, era l’ultimo avamposto di case prima del mare, è stato rubato lo sguardo, gli occhi dei luciani hanno dovuto abituarsi all’ombra artificiale dei grandi palazzi che hanno imposto una nuova linea di confine. Quegli occhi che erano da sempre accecati dal sole e dal riflesso marino, semichiusi e, spesso, chiarissimi, fissati su corpi asciutti da pescatori, hanno visto la volgarità e lo scempio dell’uomo contemporaneo abbattersi sulla spiaggia, sul porto, sulle barche, sui gozzi e tutto inghiottire e dimenticare. Per questo Santa Lucia non è una via delimitata da file di palazzi su due lati, è, invece, uno strappo che non si è rimarginato, una ferita recondita che ancora divide un mondo arcaico da uno recente, l’uno nemico dell’altro. Il primo ostile per la violenza subita, il secondo vergognoso dei suoi dirimpettai. Ci sono due mondi a via santa Lucia, due popolazioni e due Napoli, una borghese, ricca, recente, informe e taciturna, chiusa e riservata, quasi invisibile ma proterva come ogni classe sociale elevata che venga da un altrove imprecisato e malamente mescolato, l’altra popolare, superba, radicata ai basoli di pietra lavica, materia viva e pulsante, feroce e disperata, mai quieta, mai pacificata, mai placata. Esiste una precisa differenza per chi nasce qui, un muro che divide i suoi abitanti e i suoi palazzi. Chi ha respirato l’aria ingrigita che galleggia nelle stanze del lato destro conosce la distanza e la rispetta in silenzio. Così chi guarda a Napoli come una città senza limiti interni, un luogo dove la vita si mescola indistintamente, commette l’errore più abusato e retorico. Qui, a partire da qui, ogni cosa, ogni corpo, ogni respiro ha un confine, a partire dal mare, superbo impedimento, pur se violato e insozzato, a ogni velleitaria costruzione umana. Ogni ambiente ha le sue ferree regole, le sue siepi nascoste, le sue mura invalicabili. Qui tutto è nato e vive e muore all’interno di misure stabilite, gli sfoghi, i gesti smisurati sono eccezioni consapevoli, concessioni per acquietare un’intolleranza silente, momenti di un’esistenza basata sulla distanza. Qualche volta, da bambina, salivo con mia nonna per il Pallonetto. Andavamo a trovare le famiglie, ricordo il caffé che ci offrivano e il fondo di zucchero che mi lasciavano leccare dalla tazzina marrone e bianca come quelle dei bar.  D’estate una donna anziana con una lunga gonna nera, i capelli, sistemati confusamente in una crocchia, bianchissimi e sfuggenti, si sedeva sul marciapiede davanti alla farmacia sotto il nostro palazzo, vicino teneva un grosso barile di ferro con un fuoco di braci sempre accese. La sedia di paglia che quasi non reggeva il peso e quel corpo sontuoso. Aveva occhi sottili ma di un colore così cupo che non riuscivo a distinguere l’iride dalla pupilla, uno sguardo severo, doloroso, accigliato, e mai nemmeno una parola. Solo una voce, ogni tanto, le usciva dalla gola. Chiamava un nome di donna a ore esatte, modulando le vocali. Possedeva, nella sua infinita povertà, una voce propria, un suo suono, un’anima. La voce veniva da una vita precisa, costruita negli anni, impastata di quell’aria sfatta e immobile che respiravano gli abitanti del vicolo. Ma nel fondo aveva una limpidezza meravigliosa, mai rauca, come a voler ricordare un’altra era, quella del sole che ora solo a mezzogiorno riusciva a rompere il velo di Pallonetto e sfiorava le soglie delle porte dove l’impagliatore di sedie si accucciava per ore intere sull’ingresso del basso, dove Annarella vendeva le sue sigarette di contrabbando agli americani degli hotel di lusso o ai marinai appena sbarcati, dove i turisti si affacciavano col loro passo avvisato e cauto, freddi entomologi alla ricerca di rarità da fermare in uno scatto. Tutto si confonde nei ricordi, ogni cosa perde il suo tempo, e ciò che più mi restava, mentre vagavo nel tardo pomeriggio indugiando a entrare nel portone enorme del palazzo, erano ancora gli odori, i volti, le voci, i suoni. Ero sul limite, il posto dove avevo vissuto e dove ora mi trovavo era il limite tra le due città. Non appartenevo né al mondo di destra né agli edifici eleganti di fronte. Sentivo il mio esilio, sentivo che nessuno di quei due luoghi mi riconosceva, mi accoglieva. Guardai la mia camera, quella al terzo piano nella quale avevo dormito per anni, lo spazio tra il balcone e la casa di fronte era il Pallonetto che all’inizio è assai stretto, per poi allargarsi man mano che sale. Mi avvicinai con aria smarrita, avvertendo che tutto, adesso, ogni gradino, ogni muro, ogni vicolo mi era interdetto, perché ci entravo per frugare. Il mio passo non era più quello distratto e sapiente di chi appartiene a una strada, di chi torna accolta da sorrisi e sussurri di benvenuto, la mia postura non mi rendeva amici i monacielli, le fate che conoscevano il mio scopo. Era ormai il passo di una ladra che cercava particolari da digitare su una tastiera, da usare per il suo racconto. Il passo e gli occhi furtivi di chi sente su di sé la colpa che sta per commettere e che si porta dietro. Provai a sedermi sulle scale della chiesa della Catena che si affaccia sulla strada principale, il cancello di ferro era chiuso, come sempre, la piccola campana in alto segnava i quarti d’ora. Pareva anch’essa dirmi che non c’era nulla che io potessi vedere ormai. Quell’edificio così solitario e sempre interdetto alle visite che prende il nome dal miracolo di condannati a morte innocenti che videro le loro catene spezzate dall’intervento della Madonna, che rimanda alla speranza libertà degli oppressi, dei poveri, dei derelitti, accoglie i resti di Jusepe de Ribera, splendido e visionario pittore barocco. Lì, i pescatori di Santa Lucia decisero di deporre, dopo la rivoluzione del ‘99, dopo il sogno di libertà affogato nel sangue e nell’ignoranza meschina del potere, il corpo di Francesco Caracciolo, eroe della rivoluzione napoletana fatto uccidere da Nelson, appeso alla chiglia della nave Minerva e poi gettato nelle acque del Golfo. Un luogo che da solo sussurra la forza di questi cuori, capaci di pietà e di amore anche verso chi voleva togliergli il loro Tata Lazzarone. Mi alzai prendendo fiato, girato il vicolo la chiesa si muta in un palazzo, perché nulla qui è ciò che sembra, perché il sacro e il quotidiano si appoggiano l’uno all’altro dandosi le spalle, ignorandosi in un continuo sgomitare per assicurarsi il respiro, la luce, l’aria. Lo spazio della chiesa scompare e la vita occupa l’oltre, l’aldilà da esso. La Chiesa della Catena con i doni dei marinai, dei pescatori mi aveva ridato forza; bruscamente tornai indietro, avevo deciso di risalire verso il santuario di Santa Lucia a mare, dove ero stata battezzata e dove da sempre andavo a sedermi quando cercavo silenzio e odore di incenso bruciato. Strozzata fra gli orribili palazzi signorili, il santuario, ricostruito dopo la seconda guerra mondiale, e, un tempo collocato sulla spiaggia, si offre alla strada con il suo aspetto severo e triste, ma, entrando, l’anima bizantina, pagana e scintillante di questo luogo di nuovo si svela. Le pareti interamente coperte da ex voto in argento e oro. Occhi, centinaia e centinaia di occhi fissi, ovali, incollati ai muri che si scrutano l’un l’altro. La vista, questa ossessione così naturale nell’uomo, l’orrore di perderla e, con essa, i colori vividi di questo mondo una volta fatto d’azzurri e ori e gioielli, ora secchi ma ancora puri sotto la polvere e il grigio scuro della mano dell’uomo e il suo delirio di costruire, di fare, di arrivare al cielo e di negarlo. Santa Lucia era là e mi guardava coi suoi tanti occhi. Non c’era angolo nel quale potessi nascondermi. La mia paura di perdere la vista aveva ripreso prepotente il sopravvento, il fiato iniziava a farsi corto e spezzato. Ripresi a scendere in questo vagare a vuoto, cercando di ignorare tutto ciò che mi soffocava, i citofoni con i numeri in codice, le targhe degli studi di consulenza, gli studi medici, le traverse anonime, i garage e l’odore di scarico, i ristoranti, il palazzo della regione e le sue bandiere lise.  Raggiunsi il fondo della strada, la fontana dell’acqua ferrigna era imbrigliata da impalcature perenni. Tutto il costone del Monte Echia era stato nascosto all’angolo col Chiatamone. Pareva che la città si vergognasse di venire da lì, dalla terra, dal tufo, dalle cavità. Pareva che facesse di tutto per dimenticare quella sporgenza che aveva dato vita a tutto il resto, Palèpolis doveva stare in disparte, lasciar il passo ai nuovi abitanti. Di questo nome, della vecchia città, rimaneva traccia solo nella targa di una strada sul lato sinistro, Via Palepoli, dritta, lineare, tracciata sul foglio e poi sistemata tra i palazzi, una strada volontaria, disumana come tante. Alzai la testa in un altro gesto consueto. Cercavo dei volti dietro ai vetri degli appartamenti eleganti, cercavo dei segnali di vita. Nulla, solo luci tenui accese, solo sembianze di tempo che scorre nel frettoloso susseguirsi di giorno e notte. Loro, gli usurpatori della spiaggia, non si affacciavano mai, solo le cameriere si vedevano ogni tanto, con le crestine bianche e le divise blu. Cingalesi, filippine, anche italiane, col giovedì e la domenica libere e la stanza da letto che dava all’interno del palazzo. Anche ora, al terzo piano dell’ultimo numero civico dispari, c’era una donna che spolverava le persiane marroni. Nient’altro che facesse intendere che quelle case erano abitate da donne, uomini, padri, madri, bambini, animali. I palazzi del lato destro sono scavati nel monte, nati dal suo tufo rimodellato e posato, pietra su pietra. Si sono appoggiati lentamente al fianco della montagna e l’hanno sventrata senza far chiasso scavandola piano piano per farsi più alti e più ampi. Al terzo piano del palazzo ci sono le cantine, lunghi e stretti cunicoli che s’infilano nel corpo di Pizzofalcone e lo esplorano. Le pareti portano ancora i segni degli scalpelli, l’aria lì dentro è pulita, asciutta. Ci andavo ogni volta che potevo, ci tornai anche quel pomeriggio. Ai miei occhi stanchi e sfiancati dalla vista delle auto e da quel sembiante di esistenza tutta uguale dalla quale ero fuggita attraversando di corsa la strada per ritornare sul lato destro, quel pezzo di primitivo legame tra l’uomo e il mondo naturale apparve come un tesoro. Avevo trovato di nuovo una via segreta per entrare nella città, nel suo grembo, nella materia di cui era fatta. Lì, dopo i colpi che il vivere attuale mi aveva inferto, dopo le lacrime trattenute per il tradimento che credevo di compiere verso un mondo che sentivo lontano, lì, in quell’utero buio e salvo e severo, mi vidi parte di qualcosa. Compresi che la natura si era rifugiata nei posti più reconditi e impenetrabili ma che non aveva abbandonato il mondo. Compresi che c’era ancora una speranza per ritornare ad essa, per chiederle di accogliermi come sua figlia, senza parole. Sapevo che la pietra proteggeva la tenerezza e il candore di un’anima negletta ma non perduta, non ancora corrotta del tutto. Sentivo che finalmente avevo varcato il limite, che ero dall’altra parte anch’io e che potevo sopportare e accogliere con infinita clemenza i rumori attutiti di tutta quella fragile ed effimera vita che si animava sopra di me.


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