lunedì 8 agosto 2016

LA COMUNITÀ CHE NON C’È.



Quand’è che c’era la comunità? Forse quando eravamo bambini e tutto ci sembrava come immerso in un’ampolla colorata? O forse quando gli uomini hanno iniziato il loro delirante valzer intorno all’io?Io non l’ho mai vista questa comunità, ho ascoltato racconti, tante storie sul mio paese, ho visto le donne la domenica mattina prepararsi per andare a messa e sedersi nei primi banchi in chiesa, e gli uomini arrivare dopo, col cappello in mano, stare dietro, in fondo, come se quello che accadeva non fosse affar loro. Ho visto i funerali con la banda e le prefiche che si lamentavano per morti tutte annunciate e ho visto le veglie funebri intorno al letto del morto, volti scuri, pianti imprecisi, scialli neri.Poi ho visto i piccioni nelle gabbie con le ali spuntate per non farli volare, e i conigli, coi musi tremanti, che aspettavano solo la domenica, e loro nemmeno sapevano che c’era la domenica. E ho sentito le gambe che si irrigidivano mentre la contadina mi dava da stringerle e lei gli tagliava la gola a quel coniglio bianchissimo.La comunità i paesi, la civiltà contadina. Non mi incantate più con la nostalgia del ricordo, non mi avete mai incantata. Vedevo l’uomo vicino al camino, dopo il lavoro nei campi, che ruttava e bestemmiava per la fatica e la donna che ancora non smetteva di lavorare, che mangiava in piedi, vicino ai fornelli, come un mulo.Sentivo la puzza di morte, di sangue che appestava le case e la merda che invadeva ogni angolo, la mungitura delle vacche alle sette di sera, il sapore di quel liquido bianco sottratto ai vitelli per pascere noi, i figli dei padroni, larve piagnucolose e isteriche.Hanno detto che il lavoro era la sola libertà, la sola libertà è non fare niente, non vendere niente, non avere nulla da vendere.Dicono: la conoscenza è libertà, la parola è libertà. Tutti prodotti umani che dobbiamo in qualche modo smerciare con altri umani.Ma non lo sentite lo strazio che viene dal resto, da tutto quello che noi crediamo di guardare e non vediamo con i nostri occhietti piccoli, fumosi, di superficie?La terra non è la zolla sollevata dal trattore, quella è una parte, una minuscola parte di un mondo che non possiamo vedere, e allora sventriamo, distruggiamo, scaviamo. Noi riusciamo a distruggere le montagne, noi non abbiamo limiti, non vogliamo averne su questa terra.Vogliamo ogni giorno dimenticare il nostro limite inesorabile, la nostra finitezza e per farlo dobbiamo uccidere, consumare, distruggere, violare.Ma quale comunità? Quella forse dove le donne chinavano il capo davanti al marito, venivano vendute come oggetti con tanto di lista dotale? Quella dove non potevano passeggiare da sole per strada a meno che non erano pazze o puttane?Comunità: chiusura, nucleo, limite, esclusione. Questo e solo questo è comunità.Io sono di grotta, voi no, quelli di melito sono mangiarospi, quelli di ariano sono cornuti, quelli di mirabella sono ebrei perché fanno il mercato la domenica. Questa è la comunità.La tradizione, i matrimoni combinati, le coppie spente e grigie senza sorrisi, senza furori, senza felicità da esibire. Solo miseria e miseria, materiale e spirituale. Solo giudizi e sguardi di traverso e litanie e riti.E cani randagi magri, con le ossa da fuori, a cui non si gettano gli avanzi della domenica, la solita domenica con la solita carne per dimostrare il benessere. Resti che avrebbero sfamato animali morti di freddo e di fame, resti gettati nel sacchetto dell’umido perché da noi si fa la differenziata, a Napoli no.Comunità? Contadini con le pezze al culo che vendevano pure l’anima al farmacista e al medico di paese, sempre a testa bassa, sempre a ubbidire davanti e a bestemmiare da dietro. Servi dei servi.Mai un gesto comune, mai il bene comune, solo litigi per un confine, litigi fra fratelli, come fra caino e abele.Comunità, non è stato il terremoto a portarcela via perché non c’era mai stata. Pure sotto le macerie abbiamo cercato di salvare prima i nostri “cari” e poi, perché ci capitavano davanti, gli altri.Questo non è bene, questo non è amore. Questo è solo l’osceno spettacolo di una specie che si preserva, che non vuole estinguersi e che si riconosce nella legittima prole, si intenerisce per quattro adolescenti asfittici e morti e non alza un dito per chi, adesso, ora, sta morendo altrove.Ci hanno insegnato a stare dentro i nostri recinti, come noi facciamo con le pecore. E noi lì dentro, solo lì dentro scalpitiamo, ma, quando arrivano i macellai, abbassiamo lo sguardo e ci facciamo sgozzare e ci addoloriamo solo per la nostra fine, solo per noi che finiamo.

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