mercoledì 18 maggio 2016

LA “VENERE” DI WILLENDORF: PRIMI SPUNTI PER UN’ANALISI DELLA FUNZIONE DI GENERE .





The Venus of Willendorf, then, within her culture and period, rather than within ours, was clearly richly and elaborately clothed in inference and meaning. She wore the fabric of her culture. She was, in fact, a referential library and a multivalent,multipurpose symbol.

Alexander Marshack, “The Female Image”[1]



La figura femminile, intesa come rappresentazione del corpo della donna esplicitamente connotato, accompagna la storia iconografica della nostra specie umana sin dai più antichi documenti reperiti. Ci si è a lungo interrogati su tale presenza, tuttora il dibattito è aperto, ma, se per le epoche storicamente meglio conosciute, grazie alla varietà di materiali e di fonti documentarie in nostro possesso, la questione viene normalmente fatta rientrare nel sistema di interpretazione culturale di una società,  per le cosiddette "Veneri" paleolitiche il discorso resta alquanto complesso e troppo a lungo, sfortunatamente, sottoposto a modelli costruiti per altre fasi storiche. Il risultato è che ancora oggi è facile incappare in letture estremamente semplificatrici ed estetizzanti, o, peggio, in descrizioni che continuano a relegare queste produzioni in schemi privi di una problematicità,  a ridurli, nella sostanza, a mere rappresentazioni di organi femminili raffigurati poiché massimo emblema della riproduzione e, quindi, della conservazione del gruppo. Il rischio di una lettura primitiva e banalizzante di una società di cui solo adesso si iniziano a delineare, invece, la complessa struttura e le precise divisioni funzionali, è fortissimo, in special modo se si resta all'interno di visioni rigide e poco attente alla ricerca interdisciplinare.
Le statuette in argilla, osso e calcite che rientrano nel modello chiamato delle "Veneri" costituiscono, attualmente, uno dei più interessanti spunti di studio delle civiltà del Paleolitico europeo e balcanico, se si considera che la loro presenza è attestata sin da 125.000 anni prima di Cristo e prosegue fino all'età del Ferro, ossia almeno fino al XI secolo.
Tali "Veneri" sono state rinvenute in diverse località europee, tra cui Brassempouy, Lespugue, Willendorf, Malta, Savignano e Balzi Rossi, ma sono di fatto diffuse dall'Atlantico alla Siberia. Mentre la tradizione vuole che esse appartengano alla facies aurignaziana, esse per lo più sono in realtà gravettiane e solutreane.
Differenti sono le tipologie e differenti i contesti di ritrovamento. Alcune di queste statuette, spesso di piccolissime dimensioni, si pensi alla Venere di Willendorf che misura undici centimetri di altezza, sono state ritrovate all'interno di sistemi completamente compromessi, altre vengono da ritrovamenti occasionali e solo alcune sono il risultato di scavi scientifici che ne permettono la collocazione precisa.
Gli studi più recenti[2], finalmente liberi dalle desuete interpretazioni delle statuette come simboli della fertilità femminile tout-court, sono assai più attenti all'analisi dettagliata di ogni singolo particolare decorativo e morfologico presente su di esse, poiché è ormai opinione comune e accettata, nel mondo degli studiosi, che nulla, nessun elemento vi è stato inserito casualmente, ma che esso va studiato, interpretato e utilizzato per una lettura antropologica, storica e culturale di queste produzioni
In tal senso proprio la cd. "Venere di Willendorf" è stata oggetto di una accurata analisi iconografica, analisi che ha condotto a conclusioni , in un certo senso, rivoluzionarie per la ricostruzione delle società paleolitiche e delle loro organizzazione.
Un esempio su tutti è la nuova interpretazione che si attribuisce alla decorazione su tutto il capo della Willendorf.
Sulla base di esami accurati e di raffronti con altre statuette dello stesso tipo, steatopigico, senza connotazioni facciali ed in terracotta, di varia provenienza, si è potuto stabilire che quelli che normalmente venivano considerati capelli intrecciati a spirale che coprivano il volto della donna, sono, invece, giunchi intrecciati che formano un vero e proprio copricapo rituale, emblema dell'appartenenza della donna ad una determinata ed elevata classe sociale all'interno della sua comunità, una comunità che riconosceva alla donna stessa una funzione  che andava ben oltre quella della primaria funzione riproduttiva, comunque sottolineata dagli attributi sessuali così evidenti.
Anche in questo ambito, gli studi hanno potuto rilevare un avanzamento notevole,  sottolineando come la Venere in questione assuma una precisa posizione, anch'essa sociale e rituale al tempo stesso. Le braccia appoggiate sui seni, normalmente lette come una esposizione degli attributi femminile, una loro sottolineatura, vengono oggi interpretate nell’ottica di una posizione tipica di un determinato ambito sociale, quasi un altro segno di appartenenza e di distinzione,  in definitiva un marchio che indica la posizione elevata della donna nel gruppo.
Il quadro che gli studi stanno ricreando è ancora in fase di definizione, ma pone alcuni elementi di sicurezza nella lettura della Venere e delle altre statuette femminili di questo tipo. Le donne raffigurate in questo modo vivevano in gruppi che di "primitivo" avevano ormai ben poco, gruppi nei quali,  molto verosimilmente, donne ed uomini, o meglio, alcuni gruppi di donne ed uomini rivestivano ruoli e posizioni di riguardo, comunemente riconosciute ed accettate.
Una società forse egualitaria, capace di fissare funzioni e di stabilirne il valore, all'interno di tale sistema nasce la produzione di oggetti rituali precisi come le “Veneri”, oggetti fatti da donne e destinati alle donne, accurati, pieni di dettagli e di ornamenti femminili riprodotti con una ricchezza di particolari che fa presupporre una diretta conoscenza delle tecniche di realizzazione, una conoscenza che, a quanto sembra, era patrimonio di singoli individui di sesso femminile che ne serbavano la memoria e ne garantivano la preziosa e utile produzione. Come Turner[3] , in uno scritto ormai considerato indispensabile, edito nel 1980,  ha sottolineato, "la superficie del corpo diviene il limite di distinzione della società, il  sé sociale e psico-biologico individuale, diventa un modello simbolico sul cui palcoscenico il dramma della socializzazione è definito e pronunciato. E gli ornamenti del corpo femminile diventano il linguaggio attraverso il quale il corpo stesso e l’individuo donna si esprimono".






[1] Marshack, A . 1991. The female image: A “time-factored” symbol (A study in style and aspects of image use in the Upper Palaeolithic). Proceedings of the Prehistoric Society 57(1):17–31.
[2] O. Soffer, J. M. Adovasio, and D. C. Hyland, The Venus figurines, in Current Anthropology Volume 41, Number 4, August–October 2000, 2000 by The Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research.
[3]Turner, T . 1980. “The social skin,” in Not work alone: Across-cultural view of activities superfluous to survival. Edited by J. Chjerfas and R. Lewin, pp. 112–40. London: Temple Smith.

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