The Venus of Willendorf, then, within her culture and period, rather than within ours, was clearly richly and elaborately clothed in inference and meaning. She wore the fabric of her culture. She was, in fact, a referential library and a multivalent,multipurpose symbol.
Alexander Marshack, “The Female Image”[1]
La figura femminile, intesa come rappresentazione del corpo della donna
esplicitamente connotato, accompagna la storia iconografica della nostra specie
umana sin dai più antichi documenti reperiti. Ci si è a lungo interrogati su
tale presenza, tuttora il dibattito è aperto, ma, se per le epoche storicamente
meglio conosciute, grazie alla varietà di materiali e di fonti documentarie in
nostro possesso, la questione viene normalmente fatta rientrare nel sistema di
interpretazione culturale di una società, per le cosiddette
"Veneri" paleolitiche il discorso resta alquanto complesso e troppo a
lungo, sfortunatamente, sottoposto a modelli costruiti per altre fasi storiche.
Il risultato è che ancora oggi è facile incappare in letture estremamente
semplificatrici ed estetizzanti, o, peggio, in descrizioni che continuano a
relegare queste produzioni in schemi privi di una problematicità, a
ridurli, nella sostanza, a mere rappresentazioni di organi femminili
raffigurati poiché massimo emblema della riproduzione e, quindi, della
conservazione del gruppo. Il rischio di una lettura primitiva e banalizzante di
una società di cui solo adesso si iniziano a delineare, invece, la complessa
struttura e le precise divisioni funzionali, è fortissimo, in special modo se
si resta all'interno di visioni rigide e poco attente alla ricerca
interdisciplinare.
Le statuette in argilla, osso e calcite che rientrano nel modello chiamato
delle "Veneri" costituiscono, attualmente, uno dei più interessanti
spunti di studio delle civiltà del Paleolitico europeo e balcanico, se si
considera che la loro presenza è attestata sin da 125.000 anni prima di Cristo
e prosegue fino all'età del Ferro, ossia almeno fino al XI secolo.
Tali "Veneri" sono state rinvenute in diverse località europee,
tra cui Brassempouy, Lespugue, Willendorf, Malta, Savignano e Balzi Rossi, ma
sono di fatto diffuse dall'Atlantico alla Siberia. Mentre la tradizione vuole
che esse appartengano alla facies aurignaziana, esse per lo più sono in
realtà gravettiane e solutreane.
Differenti sono le tipologie e differenti i contesti di ritrovamento. Alcune
di queste statuette, spesso di piccolissime dimensioni, si pensi alla Venere di
Willendorf che misura undici centimetri di altezza, sono state ritrovate
all'interno di sistemi completamente compromessi, altre vengono da ritrovamenti
occasionali e solo alcune sono il risultato di scavi scientifici che ne
permettono la collocazione precisa.
Gli studi più recenti[2], finalmente liberi dalle
desuete interpretazioni delle statuette come simboli della fertilità femminile tout-court, sono assai più attenti
all'analisi dettagliata di ogni singolo particolare decorativo e morfologico
presente su di esse, poiché è ormai opinione comune e accettata, nel mondo
degli studiosi, che nulla, nessun elemento vi è stato inserito casualmente, ma
che esso va studiato, interpretato e utilizzato per una lettura antropologica,
storica e culturale di queste produzioni
In tal senso proprio la cd. "Venere di Willendorf" è stata oggetto di
una accurata analisi iconografica, analisi che ha condotto a conclusioni , in
un certo senso, rivoluzionarie per la ricostruzione delle società paleolitiche
e delle loro organizzazione.
Un esempio su tutti è la nuova interpretazione che si attribuisce alla
decorazione su tutto il capo della Willendorf.
Sulla base di esami accurati e di raffronti con altre statuette dello stesso
tipo, steatopigico, senza connotazioni facciali ed in terracotta, di varia
provenienza, si è potuto stabilire che quelli che normalmente venivano
considerati capelli intrecciati a spirale che coprivano il volto della donna,
sono, invece, giunchi intrecciati che formano un vero e proprio copricapo
rituale, emblema dell'appartenenza della donna ad una determinata ed elevata
classe sociale all'interno della sua comunità, una comunità che riconosceva
alla donna stessa una funzione che
andava ben oltre quella della primaria funzione riproduttiva, comunque
sottolineata dagli attributi sessuali così evidenti.
Anche in questo ambito, gli studi hanno potuto rilevare un avanzamento
notevole, sottolineando come la Venere in questione assuma una precisa
posizione, anch'essa sociale e rituale al tempo stesso. Le braccia appoggiate
sui seni, normalmente lette come una esposizione degli attributi femminile, una
loro sottolineatura, vengono oggi interpretate nell’ottica di una posizione
tipica di un determinato ambito sociale, quasi un altro segno di appartenenza e
di distinzione, in definitiva un marchio che indica la posizione elevata
della donna nel gruppo.
Il quadro che gli studi stanno ricreando è ancora in fase di definizione, ma
pone alcuni elementi di sicurezza nella lettura della Venere e delle altre
statuette femminili di questo tipo. Le donne raffigurate in questo modo
vivevano in gruppi che di "primitivo" avevano ormai ben poco, gruppi
nei quali, molto verosimilmente, donne ed uomini, o meglio, alcuni gruppi
di donne ed uomini rivestivano ruoli e posizioni di riguardo, comunemente
riconosciute ed accettate.
Una società forse egualitaria, capace di fissare funzioni e di stabilirne il
valore, all'interno di tale sistema nasce la produzione di oggetti rituali
precisi come le “Veneri”, oggetti fatti da donne e destinati alle donne,
accurati, pieni di dettagli e di ornamenti femminili riprodotti con una
ricchezza di particolari che fa presupporre una diretta conoscenza delle
tecniche di realizzazione, una conoscenza che, a quanto sembra, era patrimonio
di singoli individui di sesso femminile che ne serbavano la memoria e ne
garantivano la preziosa e utile produzione. Come Turner[3] ,
in uno scritto ormai considerato indispensabile, edito nel 1980, ha sottolineato, "la superficie del
corpo diviene il limite di distinzione della società, il sé sociale e psico-biologico individuale,
diventa un modello simbolico sul cui palcoscenico il dramma della
socializzazione è definito e pronunciato. E gli ornamenti del corpo femminile
diventano il linguaggio attraverso il quale il corpo stesso e l’individuo donna
si esprimono".
[1] Marshack, A . 1991. The female image: A
“time-factored” symbol (A study in style and aspects of image use in the Upper
Palaeolithic). Proceedings
of the Prehistoric Society 57(1):17–31.
[2] O. Soffer, J. M. Adovasio, and D. C. Hyland,
The Venus figurines, in Current
Anthropology Volume 41, Number 4, August–October 2000, 2000 by The
Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research.
[3]Turner, T . 1980. “The social skin,” in Not work alone: Across-cultural
view of activities superfluous to survival. Edited by J. Chjerfas and R. Lewin, pp. 112–40. London: Temple Smith.
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