sabato 28 maggio 2016

IL MONDO E' MORTO

Ringrazio per l'illustrazione Maria Teresa Sarno.

Il mondo è morto. facciamoci le condoglianze l’uno con l’altro. il mondo degli umani, degli uomini e delle donne è morto dopo un’agonia di centinaia di anni. forse è morto un giorno di febbraio del 1600, mentre giordano bruno bruciava sul rogo a campo de’fiori. o forse era già morto prima, quando la peste nel xiv secolo dimezzò la popolazione europea. o forse è morto un poco dopo, quando eleonora pimentél de fonseca fu impiccata senza mutande a piazza mercato mentre il popolo dei lazzari napoletani e sanfedisti le guardavano sotto il vestito. no, il mondo è morto molto prima, quando la logica ha preso il sopravvento in maniera strisciante e subdola sull’istinto. quando in nome della nostra presunta superiorità di specie, abbiamo iniziato ad allevare e ad uccidere, quando abbiamo deciso di costruire mura intorno alle città, insediamenti puzzolenti di merda e di piscio dove ogni spazio delimitava una solitudine, una casa abitata da altri morti che litigavano con i vicini per il confine, per le pecore, per la proprietà. la morte è un evento definitivo, e noi abbiamo bisogno solo di eventi definitivi, unici, senza scampo. per troppo tempo abbiamo creduto di poterci salvare, mentre invece non c’era alcuna salvezza e già stavamo morendo. abbiamo usato la filosofia per convincerci che sapevamo pensare, che sapevamo usare la testa e che, quindi, eravamo vivi. nella nostra testa non eravamo noi a muoverci, ma i vermi, le sinapsi erano il loro strisciare, la terra che spostavano. gli occhi già non c’erano più, e quello che abbiamo visto era solo una rappresentazione consolatoria, un’immagine che ci eravamo costruiti ad arte. siamo bravissimi a prenderci in giro, a illuderci della nostra vitalità curiamo i nostri corpi, produciamo merci, le acquistiamo e così ci riempiamo la vita. ma quale vita? la vita non c’è più in questo mondo, è fuggita via, è andata a nascondersi quando ha visto come volevamo usarla, che commercio intendevamo farne, come pensavamo di esporla, di metterla in ridicolo, di svilirla. il mondo è morto quando l’ultimo lupo è stato ucciso e appeso per la gola nel paese più disperso degli appennini. quando i pescatori hanno smesso di lottare alla pari con i tonni nel canale di sicilia, quando abbiamo costruito i lager dove alleviamo i polli che poi le nostre mamme danno da mangiare, slavati, bianchi, ai bambini, bianchi e slavati pure loro, senza anima, senza cuore, destinati a diventare altri morti e ora solo in fase di coma irreversibile. nessuno grida più, nessuno piange veramente, nessuno si abbraccia con vero calore. facciamo il funerale a questo nostro misero mondo. scambiamoci frasi su come eravamo buoni e bravi. portiamo lunghi vestiti neri adatti al lutto e stiamo in silenzio. spegniamo le comunicazioni, annulliamo le parole, che restino solo pochi gesti semplici e poche, pochissime cose, quelle essenziali. smettiamo di correre, tanto siamo morti, non facciamo progetti, non investiamo denaro. i morti non le fanno queste cose. i morti sono composti, silenziosi, dignitosi e veri, qualità che abbiamo perduto da troppo tempo per poterci definire vivi. solo la morte può renderci di nuovo belli e furenti. la morte non è una cosa brutta, la morte è pulizia, è rinascita e inizio. non ci ha uccisi nessuno, siamo morti da soli, guardando il nulla, pensando al futuro, accumulando o dissipando, muovendoci o stando fermi, a letto, per strada, vicino a un camino o ad una festa. nessuno ci ha ammazzati, o tutti. ora possiamo organizzare un bel funerale, un funerale di stato, un funerale mondiale. e poi stare fermi, immobili, austeri finalmente, finalmente dignitosi e innocenti. torneranno le selve sui nostri mostri, sulle strade, sulle case, e negli stessi cimiteri. e torneranno altri uomini, insieme agli animali, ai rovi. ed è chiaro che tutto questo noi che siamo morti non lo potremo vedere. ma dobbiamo lasciare questo mondo, dobbiamo liberarlo dalla nostra ingombrante presenza, togliergli le mani dal collo, lasciarlo respirare. si riorganizzerà più velocemente di quanto crediamo, il mondo, perché non è nostro, non lo è mai stato e solo noi abbiamo creduto di poterlo comprare. ma l’aria non si compra e nemmeno il vento, il mare, la neve. non si compra tutto questo immenso splendore del quale noi non partecipiamo, mai abbiamo saputo partecipare. smettiamola di agitarci e fissiamoci nella nostra posizione di defunti, sorridenti come gli etruschi, ieratici come gli egizi. scegliamo quella che più ci piace e diamoci pace perché siamo morti, finalmente e inesorabilmente morti.

martedì 24 maggio 2016

IL LATO DESTRO DELLA STRADA.

Santa Lucia e poi il numero civico. Avevo parlato velocemente al tassista salendo sull’auto a Piazza Garibaldi. Lui mi aveva guardata attraverso lo specchietto retrovisore mentre io come sempre cercavo la targhetta col suo numero di licenza e il suo nome. Poi aveva osservato ammiccante: “Lato destro?”. “Sì, lato destro, il palazzo ad angolo col Pallonetto”.L’accordo era stato fissato così, tacito e solido. E il percorso deciso, quello più corto. Corso Umberto, via Depretis, Maschio Angioino, un breve tratto di Marina e poi la discesa di Santa Lucia fino a casa.Sei euro e trenta a tassametro acceso. Santa Lucia non è una strada, non lo è nel senso corrente. Santa Lucia è un luogo di confine, un margine, un orlo sfilacciato che è stato malamente ricucito dopo un taglio. Al suo lato destro che, fino agli inizi dello scorso secolo, era l’ultimo avamposto di case prima del mare, è stato rubato lo sguardo, gli occhi dei luciani hanno dovuto abituarsi all’ombra artificiale dei grandi palazzi che hanno imposto una nuova linea di confine. Quegli occhi che erano da sempre accecati dal sole e dal riflesso marino, semichiusi e, spesso, chiarissimi, fissati su corpi asciutti da pescatori, hanno visto la volgarità e lo scempio dell’uomo contemporaneo abbattersi sulla spiaggia, sul porto, sulle barche, sui gozzi e tutto inghiottire e dimenticare. Per questo Santa Lucia non è una via delimitata da file di palazzi su due lati, è, invece, uno strappo che non si è rimarginato, una ferita recondita che ancora divide un mondo arcaico da uno recente, l’uno nemico dell’altro. Il primo ostile per la violenza subita, il secondo vergognoso dei suoi dirimpettai. Ci sono due mondi a via santa Lucia, due popolazioni e due Napoli, una borghese, ricca, recente, informe e taciturna, chiusa e riservata, quasi invisibile ma proterva come ogni classe sociale elevata che venga da un altrove imprecisato e malamente mescolato, l’altra popolare, superba, radicata ai basoli di pietra lavica, materia viva e pulsante, feroce e disperata, mai quieta, mai pacificata, mai placata. Esiste una precisa differenza per chi nasce qui, un muro che divide i suoi abitanti e i suoi palazzi. Chi ha respirato l’aria ingrigita che galleggia nelle stanze del lato destro conosce la distanza e la rispetta in silenzio. Così chi guarda a Napoli come una città senza limiti interni, un luogo dove la vita si mescola indistintamente, commette l’errore più abusato e retorico. Qui, a partire da qui, ogni cosa, ogni corpo, ogni respiro ha un confine, a partire dal mare, superbo impedimento, pur se violato e insozzato, a ogni velleitaria costruzione umana. Ogni ambiente ha le sue ferree regole, le sue siepi nascoste, le sue mura invalicabili. Qui tutto è nato e vive e muore all’interno di misure stabilite, gli sfoghi, i gesti smisurati sono eccezioni consapevoli, concessioni per acquietare un’intolleranza silente, momenti di un’esistenza basata sulla distanza. Qualche volta, da bambina, salivo con mia nonna per il Pallonetto. Andavamo a trovare le famiglie, ricordo il caffé che ci offrivano e il fondo di zucchero che mi lasciavano leccare dalla tazzina marrone e bianca come quelle dei bar.  D’estate una donna anziana con una lunga gonna nera, i capelli, sistemati confusamente in una crocchia, bianchissimi e sfuggenti, si sedeva sul marciapiede davanti alla farmacia sotto il nostro palazzo, vicino teneva un grosso barile di ferro con un fuoco di braci sempre accese. La sedia di paglia che quasi non reggeva il peso e quel corpo sontuoso. Aveva occhi sottili ma di un colore così cupo che non riuscivo a distinguere l’iride dalla pupilla, uno sguardo severo, doloroso, accigliato, e mai nemmeno una parola. Solo una voce, ogni tanto, le usciva dalla gola. Chiamava un nome di donna a ore esatte, modulando le vocali. Possedeva, nella sua infinita povertà, una voce propria, un suo suono, un’anima. La voce veniva da una vita precisa, costruita negli anni, impastata di quell’aria sfatta e immobile che respiravano gli abitanti del vicolo. Ma nel fondo aveva una limpidezza meravigliosa, mai rauca, come a voler ricordare un’altra era, quella del sole che ora solo a mezzogiorno riusciva a rompere il velo di Pallonetto e sfiorava le soglie delle porte dove l’impagliatore di sedie si accucciava per ore intere sull’ingresso del basso, dove Annarella vendeva le sue sigarette di contrabbando agli americani degli hotel di lusso o ai marinai appena sbarcati, dove i turisti si affacciavano col loro passo avvisato e cauto, freddi entomologi alla ricerca di rarità da fermare in uno scatto. Tutto si confonde nei ricordi, ogni cosa perde il suo tempo, e ciò che più mi restava, mentre vagavo nel tardo pomeriggio indugiando a entrare nel portone enorme del palazzo, erano ancora gli odori, i volti, le voci, i suoni. Ero sul limite, il posto dove avevo vissuto e dove ora mi trovavo era il limite tra le due città. Non appartenevo né al mondo di destra né agli edifici eleganti di fronte. Sentivo il mio esilio, sentivo che nessuno di quei due luoghi mi riconosceva, mi accoglieva. Guardai la mia camera, quella al terzo piano nella quale avevo dormito per anni, lo spazio tra il balcone e la casa di fronte era il Pallonetto che all’inizio è assai stretto, per poi allargarsi man mano che sale. Mi avvicinai con aria smarrita, avvertendo che tutto, adesso, ogni gradino, ogni muro, ogni vicolo mi era interdetto, perché ci entravo per frugare. Il mio passo non era più quello distratto e sapiente di chi appartiene a una strada, di chi torna accolta da sorrisi e sussurri di benvenuto, la mia postura non mi rendeva amici i monacielli, le fate che conoscevano il mio scopo. Era ormai il passo di una ladra che cercava particolari da digitare su una tastiera, da usare per il suo racconto. Il passo e gli occhi furtivi di chi sente su di sé la colpa che sta per commettere e che si porta dietro. Provai a sedermi sulle scale della chiesa della Catena che si affaccia sulla strada principale, il cancello di ferro era chiuso, come sempre, la piccola campana in alto segnava i quarti d’ora. Pareva anch’essa dirmi che non c’era nulla che io potessi vedere ormai. Quell’edificio così solitario e sempre interdetto alle visite che prende il nome dal miracolo di condannati a morte innocenti che videro le loro catene spezzate dall’intervento della Madonna, che rimanda alla speranza libertà degli oppressi, dei poveri, dei derelitti, accoglie i resti di Jusepe de Ribera, splendido e visionario pittore barocco. Lì, i pescatori di Santa Lucia decisero di deporre, dopo la rivoluzione del ‘99, dopo il sogno di libertà affogato nel sangue e nell’ignoranza meschina del potere, il corpo di Francesco Caracciolo, eroe della rivoluzione napoletana fatto uccidere da Nelson, appeso alla chiglia della nave Minerva e poi gettato nelle acque del Golfo. Un luogo che da solo sussurra la forza di questi cuori, capaci di pietà e di amore anche verso chi voleva togliergli il loro Tata Lazzarone. Mi alzai prendendo fiato, girato il vicolo la chiesa si muta in un palazzo, perché nulla qui è ciò che sembra, perché il sacro e il quotidiano si appoggiano l’uno all’altro dandosi le spalle, ignorandosi in un continuo sgomitare per assicurarsi il respiro, la luce, l’aria. Lo spazio della chiesa scompare e la vita occupa l’oltre, l’aldilà da esso. La Chiesa della Catena con i doni dei marinai, dei pescatori mi aveva ridato forza; bruscamente tornai indietro, avevo deciso di risalire verso il santuario di Santa Lucia a mare, dove ero stata battezzata e dove da sempre andavo a sedermi quando cercavo silenzio e odore di incenso bruciato. Strozzata fra gli orribili palazzi signorili, il santuario, ricostruito dopo la seconda guerra mondiale, e, un tempo collocato sulla spiaggia, si offre alla strada con il suo aspetto severo e triste, ma, entrando, l’anima bizantina, pagana e scintillante di questo luogo di nuovo si svela. Le pareti interamente coperte da ex voto in argento e oro. Occhi, centinaia e centinaia di occhi fissi, ovali, incollati ai muri che si scrutano l’un l’altro. La vista, questa ossessione così naturale nell’uomo, l’orrore di perderla e, con essa, i colori vividi di questo mondo una volta fatto d’azzurri e ori e gioielli, ora secchi ma ancora puri sotto la polvere e il grigio scuro della mano dell’uomo e il suo delirio di costruire, di fare, di arrivare al cielo e di negarlo. Santa Lucia era là e mi guardava coi suoi tanti occhi. Non c’era angolo nel quale potessi nascondermi. La mia paura di perdere la vista aveva ripreso prepotente il sopravvento, il fiato iniziava a farsi corto e spezzato. Ripresi a scendere in questo vagare a vuoto, cercando di ignorare tutto ciò che mi soffocava, i citofoni con i numeri in codice, le targhe degli studi di consulenza, gli studi medici, le traverse anonime, i garage e l’odore di scarico, i ristoranti, il palazzo della regione e le sue bandiere lise.  Raggiunsi il fondo della strada, la fontana dell’acqua ferrigna era imbrigliata da impalcature perenni. Tutto il costone del Monte Echia era stato nascosto all’angolo col Chiatamone. Pareva che la città si vergognasse di venire da lì, dalla terra, dal tufo, dalle cavità. Pareva che facesse di tutto per dimenticare quella sporgenza che aveva dato vita a tutto il resto, Palèpolis doveva stare in disparte, lasciar il passo ai nuovi abitanti. Di questo nome, della vecchia città, rimaneva traccia solo nella targa di una strada sul lato sinistro, Via Palepoli, dritta, lineare, tracciata sul foglio e poi sistemata tra i palazzi, una strada volontaria, disumana come tante. Alzai la testa in un altro gesto consueto. Cercavo dei volti dietro ai vetri degli appartamenti eleganti, cercavo dei segnali di vita. Nulla, solo luci tenui accese, solo sembianze di tempo che scorre nel frettoloso susseguirsi di giorno e notte. Loro, gli usurpatori della spiaggia, non si affacciavano mai, solo le cameriere si vedevano ogni tanto, con le crestine bianche e le divise blu. Cingalesi, filippine, anche italiane, col giovedì e la domenica libere e la stanza da letto che dava all’interno del palazzo. Anche ora, al terzo piano dell’ultimo numero civico dispari, c’era una donna che spolverava le persiane marroni. Nient’altro che facesse intendere che quelle case erano abitate da donne, uomini, padri, madri, bambini, animali. I palazzi del lato destro sono scavati nel monte, nati dal suo tufo rimodellato e posato, pietra su pietra. Si sono appoggiati lentamente al fianco della montagna e l’hanno sventrata senza far chiasso scavandola piano piano per farsi più alti e più ampi. Al terzo piano del palazzo ci sono le cantine, lunghi e stretti cunicoli che s’infilano nel corpo di Pizzofalcone e lo esplorano. Le pareti portano ancora i segni degli scalpelli, l’aria lì dentro è pulita, asciutta. Ci andavo ogni volta che potevo, ci tornai anche quel pomeriggio. Ai miei occhi stanchi e sfiancati dalla vista delle auto e da quel sembiante di esistenza tutta uguale dalla quale ero fuggita attraversando di corsa la strada per ritornare sul lato destro, quel pezzo di primitivo legame tra l’uomo e il mondo naturale apparve come un tesoro. Avevo trovato di nuovo una via segreta per entrare nella città, nel suo grembo, nella materia di cui era fatta. Lì, dopo i colpi che il vivere attuale mi aveva inferto, dopo le lacrime trattenute per il tradimento che credevo di compiere verso un mondo che sentivo lontano, lì, in quell’utero buio e salvo e severo, mi vidi parte di qualcosa. Compresi che la natura si era rifugiata nei posti più reconditi e impenetrabili ma che non aveva abbandonato il mondo. Compresi che c’era ancora una speranza per ritornare ad essa, per chiederle di accogliermi come sua figlia, senza parole. Sapevo che la pietra proteggeva la tenerezza e il candore di un’anima negletta ma non perduta, non ancora corrotta del tutto. Sentivo che finalmente avevo varcato il limite, che ero dall’altra parte anch’io e che potevo sopportare e accogliere con infinita clemenza i rumori attutiti di tutta quella fragile ed effimera vita che si animava sopra di me.


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giovedì 19 maggio 2016

eldarissa: LA “VENERE” DI WILLENDORF: PRIMI SPUNTI PER UN’ANALISI DELLA FUNZIONE DI GENERE .

eldarissa: LA “VENERE” DI WILLENDORF: PRIMI SPUNTI PER UN’ANALISI DELLA FUNZIONE DI GENERE .

eldarissa: APPENDICE. Alcune note sul culto della Dea Madre in “Il Linguaggio della Dea: Mito e Culto della Dea Madre nell'Europa Neolitica” di Marija Gimbutas.

eldarissa: APPENDICE. Alcune note sul culto della Dea Madre in “Il Linguaggio della Dea: Mito e Culto della Dea Madre nell'Europa Neolitica” di Marija Gimbutas.

APPENDICE. Alcune note sul culto della Dea Madre in “Il Linguaggio della Dea: Mito e Culto della Dea Madre nell'Europa Neolitica” di Marija Gimbutas.







I simboli di rado sono astratti in senso stretto;
i loro legami con la natura sono profondi, e devono essere 
svelati attraverso lo studio del contesto e delle loro
associazioni.
Marija Gimbutas

Dispensatrice della vita, espressione della terra che si rinnova, simbolo dell'energia dell'universo, ma anche Signora della morte, che è l'altra faccia della vita: queste sono le connotazioni della Grande Dea. Il suo culto è stato dominante nell'Europa del Neolitico Antico, tra il 7000 e il 3500 a.C. Un'Europa abitata da popoli felici che risiedevano in villaggi, praticavano l'agricoltura, non conoscevano la guerra, vivevano in armonia con la natura grazie al fatto che le donne avevano un ruolo primario nell'organizzazione sociale e nella vita religiosa. Una vita serena che cessò verso il 4000 a.C quando cominciarono ad arrivare da Est orde di cavalieri armati che distrussero quella società matriarcale e la pace dei popoli della Grande Dea. Per verificare questa tesi, Marija Gimbutas, eminente studiosa e pioniera dell'archeomitologia (una disciplina che fonde archeologia, mitologia comparata e folklore) fa ricorso a un vastissimo repertorio di immagini, figurazioni dipinte o incise su pareti di roccia, nonché statuette di pietra, avorio e terracotta. Si tratta di 2000 manufatti dell'Antica Europa, ricchi di significati simbolici, nel rivelare la genesi autentica del patrimonio culturale dell'Occidente. Il mondo della Dea sottintende l'intero regno in cui essa si è manifestata. Quali furono le sue funzioni principali? Quali i rapporti tra essa e i suoi animali, le piante e il resto della natura? In diversi libri di storici della religione, di mitologi e psicologi, la Dea è stata descritta come la Grande Madre che dà la vita dal Suo Grembo a tutte le cose. È solitamente rappresentata con le fattezze delle "Veneri" del Paleolitico e delle statuette europee e anatoliche delNeolitico o dell'Età del Bronzo cretese. I siti più ricchi dove si sono mantenuti integri templi e affreschi, sono di massima importanza per ricreare queste divinità, le loro funzioni e i rituali associati. I rinvenimenti di çatal Hüyük, nell'Anatolia centrale, risalenti dal 6400 al 5600 a.C circa, vennero compiuti da James Mellaart negli anni '60. Gli stessi scavi da me eseguiti ad Achilleion, in Tessaglia, nel 1973-74, hanno portato alla luce alcuni dei più antichi templi europei dello stesso periodo. La scoperta delle aree sacre di sepoltura del Mesolitico e del Neolitico Antico a Lepenski Vir e Vlasac sul Danubio, nella Iugoslavia settentrionale, fornì preziose informazioni sui rituali funebri e sulle sculture delle divinità associate alla Rigenerazione. Una notevole sequenza di rinvenimenti in Bulgaria, Romania, Moldavia e nell'Ucraina Occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, ha rivelato tesori di sculture e ceramiche dipinte, così come templi.Molti di questi risalgono dal VI al V millennio a.C.Nell'area mediterranea, oltre ai grandi templi e alle tombe di Malta, gli scavi in Sardegna hanno portato alla luce tombe sotterranee e rupestri. La maggior parte delle illustrazioni riprodotte nello studio della Gimbutas è databile dal 6500 al 3500 a.C nell'Europa sud-orientale e dal 4500 al 2500 a.C nell'Europa occidentale.Gli aspetti precipui della Dea del Neolitico – la Generatrice di Vita, rappresentata nella naturalisticaposizione del parto (a tal rimando, segnalo due collegamenti: il primo, con la Mitologia dell'America Centrale, che ha prodotto molte statuette di Dee "accovacciate" nell'atto di partorire; il secondo, a noi più vicino, e che mi è stato segnalato da Vanessa Dylan, è il dipinto - dal forte sapore "primitivo" - di Monica Sjöö, Pensatrice NeoPagana Femminista, "God Giving Birth", nel quale si vede una Dea Possente, dal volto bicromo, stilizzato, "Virile", con i seni eretti, partorire dalla vulva.Nota di Lunaria); la dispensatrice di fertilità, che influenza la crescita e la moltiplicazione, rappresentata incinta e nuda; la dispensatrice e protettrice di vita, o nutrimento, rappresentata come donna-uccello con seni e glutei prominenti; la reggitrice di morte, rappresentata come un nudo rigido ("osso") - possono essere tutti  rintracciati nel periodo in cui comparvero le prime sculture di osso, avorio o pietra, attorno al 25.000 a.C, e i loro simboli - vulve, triangoli, seni, chevron, zig zag, meandri, coppelle - risalenti a un'epoca ancora più arcaica.Il tema centrale del simbolismo della Dea si dispiega nel mistero della nascita e della morte, e nel rinnovamento della vita, non solo umana, ma di tutta la terra, e dell'intero cosmo. Simboli e immagini si raggruppano attorno alla Dea partenogenetica (autogenerantesi) e alle sue fondamentali funzioni di Dispensatrice di Vita, Reggitrice di Morte e Rigeneratrice, e intorno alla Madre Terra, la giovane e vecchia Dea della Fertilità, che nasce e muore con la vita vegetale. Era l'unica fonte di vita che traeva l'energia dalle sorgenti, dal sole, dalla luna e dall'umida terra. In questo sistema di simboli si configura il tempo mitico, ciclico, non lineare. Nell'arte si manifesta con segni dinamici: spirali a vortici e ritorte, serpenti attorcigliati e sinuosi, cerchi, crescenti lunari, corna, semi germinati e germogli. Il serpente  stesso era un simbolo di energia vitale e rigenerazione, un'entità benevola, non malefica.Le Dee ereditate dall'Europa antica come Atena, Era, Artemide, Ecate, Minerva, Diana, le irlandesi Morrigan e Brigit, le baltiche Laima e Ragana, la russa Baba Yaga, la basca Mari non sono "Veneri" dispensatrici di fertilità e prosperità: sono molto di più.


mercoledì 18 maggio 2016

LA “VENERE” DI WILLENDORF: PRIMI SPUNTI PER UN’ANALISI DELLA FUNZIONE DI GENERE .





The Venus of Willendorf, then, within her culture and period, rather than within ours, was clearly richly and elaborately clothed in inference and meaning. She wore the fabric of her culture. She was, in fact, a referential library and a multivalent,multipurpose symbol.

Alexander Marshack, “The Female Image”[1]



La figura femminile, intesa come rappresentazione del corpo della donna esplicitamente connotato, accompagna la storia iconografica della nostra specie umana sin dai più antichi documenti reperiti. Ci si è a lungo interrogati su tale presenza, tuttora il dibattito è aperto, ma, se per le epoche storicamente meglio conosciute, grazie alla varietà di materiali e di fonti documentarie in nostro possesso, la questione viene normalmente fatta rientrare nel sistema di interpretazione culturale di una società,  per le cosiddette "Veneri" paleolitiche il discorso resta alquanto complesso e troppo a lungo, sfortunatamente, sottoposto a modelli costruiti per altre fasi storiche. Il risultato è che ancora oggi è facile incappare in letture estremamente semplificatrici ed estetizzanti, o, peggio, in descrizioni che continuano a relegare queste produzioni in schemi privi di una problematicità,  a ridurli, nella sostanza, a mere rappresentazioni di organi femminili raffigurati poiché massimo emblema della riproduzione e, quindi, della conservazione del gruppo. Il rischio di una lettura primitiva e banalizzante di una società di cui solo adesso si iniziano a delineare, invece, la complessa struttura e le precise divisioni funzionali, è fortissimo, in special modo se si resta all'interno di visioni rigide e poco attente alla ricerca interdisciplinare.
Le statuette in argilla, osso e calcite che rientrano nel modello chiamato delle "Veneri" costituiscono, attualmente, uno dei più interessanti spunti di studio delle civiltà del Paleolitico europeo e balcanico, se si considera che la loro presenza è attestata sin da 125.000 anni prima di Cristo e prosegue fino all'età del Ferro, ossia almeno fino al XI secolo.
Tali "Veneri" sono state rinvenute in diverse località europee, tra cui Brassempouy, Lespugue, Willendorf, Malta, Savignano e Balzi Rossi, ma sono di fatto diffuse dall'Atlantico alla Siberia. Mentre la tradizione vuole che esse appartengano alla facies aurignaziana, esse per lo più sono in realtà gravettiane e solutreane.
Differenti sono le tipologie e differenti i contesti di ritrovamento. Alcune di queste statuette, spesso di piccolissime dimensioni, si pensi alla Venere di Willendorf che misura undici centimetri di altezza, sono state ritrovate all'interno di sistemi completamente compromessi, altre vengono da ritrovamenti occasionali e solo alcune sono il risultato di scavi scientifici che ne permettono la collocazione precisa.
Gli studi più recenti[2], finalmente liberi dalle desuete interpretazioni delle statuette come simboli della fertilità femminile tout-court, sono assai più attenti all'analisi dettagliata di ogni singolo particolare decorativo e morfologico presente su di esse, poiché è ormai opinione comune e accettata, nel mondo degli studiosi, che nulla, nessun elemento vi è stato inserito casualmente, ma che esso va studiato, interpretato e utilizzato per una lettura antropologica, storica e culturale di queste produzioni
In tal senso proprio la cd. "Venere di Willendorf" è stata oggetto di una accurata analisi iconografica, analisi che ha condotto a conclusioni , in un certo senso, rivoluzionarie per la ricostruzione delle società paleolitiche e delle loro organizzazione.
Un esempio su tutti è la nuova interpretazione che si attribuisce alla decorazione su tutto il capo della Willendorf.
Sulla base di esami accurati e di raffronti con altre statuette dello stesso tipo, steatopigico, senza connotazioni facciali ed in terracotta, di varia provenienza, si è potuto stabilire che quelli che normalmente venivano considerati capelli intrecciati a spirale che coprivano il volto della donna, sono, invece, giunchi intrecciati che formano un vero e proprio copricapo rituale, emblema dell'appartenenza della donna ad una determinata ed elevata classe sociale all'interno della sua comunità, una comunità che riconosceva alla donna stessa una funzione  che andava ben oltre quella della primaria funzione riproduttiva, comunque sottolineata dagli attributi sessuali così evidenti.
Anche in questo ambito, gli studi hanno potuto rilevare un avanzamento notevole,  sottolineando come la Venere in questione assuma una precisa posizione, anch'essa sociale e rituale al tempo stesso. Le braccia appoggiate sui seni, normalmente lette come una esposizione degli attributi femminile, una loro sottolineatura, vengono oggi interpretate nell’ottica di una posizione tipica di un determinato ambito sociale, quasi un altro segno di appartenenza e di distinzione,  in definitiva un marchio che indica la posizione elevata della donna nel gruppo.
Il quadro che gli studi stanno ricreando è ancora in fase di definizione, ma pone alcuni elementi di sicurezza nella lettura della Venere e delle altre statuette femminili di questo tipo. Le donne raffigurate in questo modo vivevano in gruppi che di "primitivo" avevano ormai ben poco, gruppi nei quali,  molto verosimilmente, donne ed uomini, o meglio, alcuni gruppi di donne ed uomini rivestivano ruoli e posizioni di riguardo, comunemente riconosciute ed accettate.
Una società forse egualitaria, capace di fissare funzioni e di stabilirne il valore, all'interno di tale sistema nasce la produzione di oggetti rituali precisi come le “Veneri”, oggetti fatti da donne e destinati alle donne, accurati, pieni di dettagli e di ornamenti femminili riprodotti con una ricchezza di particolari che fa presupporre una diretta conoscenza delle tecniche di realizzazione, una conoscenza che, a quanto sembra, era patrimonio di singoli individui di sesso femminile che ne serbavano la memoria e ne garantivano la preziosa e utile produzione. Come Turner[3] , in uno scritto ormai considerato indispensabile, edito nel 1980,  ha sottolineato, "la superficie del corpo diviene il limite di distinzione della società, il  sé sociale e psico-biologico individuale, diventa un modello simbolico sul cui palcoscenico il dramma della socializzazione è definito e pronunciato. E gli ornamenti del corpo femminile diventano il linguaggio attraverso il quale il corpo stesso e l’individuo donna si esprimono".






[1] Marshack, A . 1991. The female image: A “time-factored” symbol (A study in style and aspects of image use in the Upper Palaeolithic). Proceedings of the Prehistoric Society 57(1):17–31.
[2] O. Soffer, J. M. Adovasio, and D. C. Hyland, The Venus figurines, in Current Anthropology Volume 41, Number 4, August–October 2000, 2000 by The Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research.
[3]Turner, T . 1980. “The social skin,” in Not work alone: Across-cultural view of activities superfluous to survival. Edited by J. Chjerfas and R. Lewin, pp. 112–40. London: Temple Smith.

venerdì 13 maggio 2016

COME UNA BAMBINA.



La mia terra è come una bambina
una bambina venduta sulla strada
sta lì seduta su una scatola di cartone,
con le gambe rannicchiate
con la testa china.
se potessero guardarla
vedrebbero occhi verdi screziati di marrone
e mille sogni che le ruggiscono dentro.
prendile in mano il viso
falla guardare in alto
falla sorridere incurante
del mercato che credono di farne.

(e.m.)

venerdì 6 maggio 2016

PICCOLA GUIDA AL CONCORSO. OSSERVAZIONI SULLE PROVE.



Come avevamo già intuito, il Miur starebbe aggiustando il tiro per quanto riguarda le prove scritte del concorso scuola 2016: anche ieri, secondo le testimonianze raccolte dai forum dei siti specializzati, le domande non presentavano la richiesta della compilazione di UdA, UD e moduli
Una notizia importante anche perché molti candidati si stanno esercitando proprio su questa modalità, riscontrando grandi problemi nella resa sintetica di tutte le informazioni. 
commenti del 5 maggio sono più o meno gli stessi dei giorni precedenti: il tempo era decisamente poco e si è trattato di un tour de force sfiancante.

Detto ciò, vorrei provare a fare alcune osservazioni sulle tracce proposte per le classi di concorso A043/A050.


La storia della letteratura italiana non è un prospetto lineare e cronologico delle opere e degli autori che si sono susseguiti nel corso dei secoli, bensì la rappresentazione di un popolo e di una società, e ne riflette, attraverso le scelte linguistiche e le diverse visioni degli scrittori e delle scrittrici, la complessità e gli intrecci con i diversi sistemi socio-culturali ( cfr. economia, cultura materiale, costumi, arti, scienze) e geo-spaziali.

In una scuola in cui si richiede ormai un insegnamento sempre più dinamico ed attivo non è assolutamente più proponibile una tipologia di storia enciclopedica né una didattica che si svolga attraverso un meta-discorso sulla letteratura.
In primo piano, quindi, va posta l'esigenza di trasmettere agli studenti la memoria e di sollecitare nel contempo l'identificazione emotiva e la loro personale capacità di analisi e di giudizio.
Questa visione si concretizza, prima di tutto, con un modello didattico che punti al coinvolgimento diretto e attivo degli studenti nel processo di insegnamento- apprendimento. 

Le stesse UDA che sono state richieste andavano svolte ragionando sempre in quest'ottica, senza prescindere dal filo rosso del "contenuto", ma cercando di comprendere come interessare e rendere partecipi ed emotivamente implicati gli studenti.


Se le nuove generazioni, o le cd. generazioni native digitali, mostrano una grande rapidità nell'utilizzo degli strumenti informatici, è anche vero che mostrano, ugualmente, delle notevoli carenze e dei vuoti nella memoria storica e scarse capacità di giudizio originale ed autonomo e, quindi, una notevole propensione ad aderire acriticamente ad eventi e personaggi che spingono verso alti livelli emozionali, senza però essere incanalati in quel processo di identificazione emotiva che permetta loro di individuare l'oggetto/soggetto in cui identificarsi o dal quale distinguersi.


E' fondamentale che la scuola non abdichi, quindi, al suo ruolo di guida e di formazione, in modo da evitare il disorientamento, la dispersione e la superficialità, oltre all'impoverimento del linguaggio in cui troppo spesso i nostri giovani incorrono.


Bisogna proporre strumenti ed oggetti culturali differenti, la rete, i libri (da leggere e non da studiare), il cinema, la musica, le arti, osservati come "insiemi" di un "insieme" che, a sua volta, produce un "sistema" nel quale ogni elemento è concatenato all'altro.


Necessaria e mai abdicabile, in quest'ottica, si rivela la lettura diretta dei testi, l'utilizzo di documenti originali ( penso alla storia), intesi non solo come documenti scritti 

( grave pecca, questa, di molti docenti di storia e di geografia), ma fonti materiali per la decodificazione e l'interpretazione delle dinamiche culturali, sociali, storiche, geo-storiche e geografiche. 

Penso, ad esempio, ai cd. modelli delle piramidi delle età, si comprende molto e molto meglio il concetto di speranza di vita, di natalità e di mortalità, di demografia in generale, guardando e mettendo a confronto le varie piramidi di nazioni diverse che leggendo pagine e pagine di teoria, e, insieme, ne si comprendono altri elementi, l'ISU, le condizioni sanitarie, la mortalità infantile, l'indice di povertà;  si riconosce molto meglio l'orografia di un'area osservandola da una foto satellitare piuttosto che sulle obsolete, seppur bellissime, carte geografiche. 


La cultura egizia si decodifica con estrema semplicità di fronte al corredo funerario di un faraone ed alla lettura di testi originali, tratti dai geroglifici, in traduzione.

Le colonie magno-greche divengono un modello leggibile se ne si analizza la piantina e i resti archeologici ancora visibili.
Le differenze di genere sono semplici da comprendere se si osservano con attenzione i corredi funerari maschili e femminili.

Stesso discorso va fatto per la letteratura italiana (e mondiale, perché non è più tempo di stare nei recinti nazionali), analizzare il lessico di un autore, il suo stile culturale ed emotivo, estrarlo direttamente dai suoi testi, per poi arrivare alla sua visione della vita e della letteratura, è operazione ardua ma assai efficace sugli studenti, i quali riescono, poco alla volta, a riconoscere modelli strutturali e, quindi, di pensiero, a porre confronti, a instaurare affinità e similitudini fra autori ed epoche diverse.


Mi è capitato, ad esempio, di condurre, con una terza di secondaria superiore, un percorso sul concetto dell'amore e sulla visione della donna, partendo dalla Beatrice e, poi, dalla Francesca del V canto di Dante, per arrivare all'Angelica dell'Ariosto.

Non è stato facile, in principio, convincere una classe di soli maschi a riflettere su un tema del genere, però, mano a mano, gli studenti sono stati capaci di connettersi agli autori, attraverso i personaggi da loro creati e raccontati ed a costruire una sorta di mappa lessicale e poetica del modello femminile tra XIII e XVI secolo, intrecciandolo anche con la storia di quel periodo.

Altro percorso è stato fatto sul concetto di "conoscenza" e di "sapere" scientifico per questo stesso periodo, ed ugualmente siamo arrivati a saper riconoscere, "solo" partendo dai testi, la collocazione filosofica, storica e culturale, nonché sociale, degli autori affrontati, utilizzando sempre ed esclusivamente gli autori, la lettura ad alta voce e partecipata dei testi.


Ne deduco, dopo anni di ricerca-azione, che orientare alla complessità, invece che semplificare i percorsi, è fondamentale per sviluppare le competenze di base nei ragazzi, ne deduco anche che il professore/docente non può esimersi dallo studio continuo di nuovi modelli e di nuove strategie, che è un suo preciso dovere analizzare i bisogni della classe con la quale si trova ad interagire, che non può chiudersi nella turris eburnea del suo "sapere", poiché esso non "serve" (nella scuola) se non è messo a disposizione degli altri, se non è condiviso e mutuato, se non trova la strada giusta per toccare la curiosità ed il cuore degli alunni.


"Non c'è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l'esperienza", lo diceva Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pura, e lo ribadisco, nel mio piccolo, anch'io in questa sede. 


L'esperienza è sempre e  solo diretta, non può passare tramite la narrazione di terzi, l'esperienza è immersione in un avvenimento, è imparare ad orientarsi, anche sbagliando più volte, l'esperienza personale è sempre il primo passo verso la consapevolezza del sé e dell'altro da sé.


A presto.

domenica 1 maggio 2016

PICCOLA GUIDA AL CONCORSO.PROSSIMAMENTE




In settimana, impegni di lavoro permettendo, commenterò le altre prove scritte del concorso.
Nel frattempo, vi invito a non sottovalutare l'impostazione che il MIUR richiede nello svolgimento dei quesiti, e vi rimando ai miei post precedenti. 
In bocca al lupo!

BEATI QUELLI


Beati quelli che non conoscono l’angoscia. Beati quelli che non sentono la paura quando arriva all’improvviso. Beati tutti quelli che non vedono. Beati i poveri di spirito perché di costoro è questo mondo. Beati i contadini che la fatica non li fa pensare. Beati quelli che prendono un aereo e se ne vanno via. Beati quelli che sanno dire basta. Beati quelli che l’aria è solo per respirare. Beato il cuore di coloro che non sanno piangere. Beata la vita dei guidatori di SUV, beato il cervello dei mangiatori di carne. Io vi invidio, maledetti, invidio i vostri sorrisi, invidio la calma con cui sapete stare in piedi, invidio l’assenza di tremori. La vita tranquilla vi invidio, il sangue gelido che vi scorre dentro, perché non smetterò mai di fremere in questo modo doloroso. Mi sentirò sempre in bilico. Tutti avranno potere su di me, un cane morto, il vento freddo, l’abisso, l’avarizia. Io non so vivere senza espormi. Non ci so stare qui volendo stare altrove, non mi limito, non mi accontento, non mi risparmio per tempi peggiori, non controllo la mia ansia di vita, i miei sogni. Non so dosare, non regolo il QB, la giusta quantità. Non la conosco, non la voglio usare. Un giorno finirò, e sarà un giorno qualunque, forse sarà domani, forse oggi stesso. E avrò vissuto conoscendo la mia limitatezza, le mie povere ossa. Avrò vissuto la vita che tutti dobbiamo vivere credendo nel bene da poter dare, confidando nella generosità. Beati voi, umani disperatamente lontani. E mi lamento, imploro, piango e maledico i vostri programmi, le vostre pacatezze. Voi le rimpiangerete un giorno. Vi dispererete per i vostri telefoni spenti, per le porte chiuse, per lo sguardo disattento che avete portato in giro. Avrete nostalgia delle scelte non operate, dei rammendi continui. Io vi rimprovero tutto questo e molto altro ancora. Non è così che dobbiamo stare al mondo, non per questo abbiamo parole e cuori e polmoni. Il fiato corto è solo un impedimento che ci imponiamo. L’ictus è l’arresto di ciò che non serve a nessuno. Sono vana e inutile e non esisto per chi non mi vede. Io sono foglia e sono terra e sono mosca e formica e grano. Quando sarà il momento non voglio sapervi al mio capezzale. Giratevi dall’altra parte, non voglio i vostri occhi su di me. Non so che farmene delle promesse, dei giuramenti disattesi. Non voglio i vostri entusiasmi di un momento, le vostre progressioni e le ritirate repentine. Voi siete umani, troppo umani. Io non vi ri-conosco. In questa vita io non ci so stare. Non sento il calore del vostro fiato. Il freddo non mi piace. Ma sto con voi, umani malnati, uomini senza coraggio, donne senza orgoglio. Sto con le vostre inconsistenze, con i vostri “io,io,io”. Voi non mi avete, non ve la do la chiave. I vermi che smuovono la terra sanno bene il loro lavoro, lo sanno fare. Ci vedono meglio i cuccioli ciechi di topo che i vostri grigi acquosi occhi. Vivere, per voi, è solo un verbo da coniugare al singolare. Non sapete accarezzare, non sapete annullarvi, non sapete ascoltare. La mia voce non serve a nessuno di voi, né serve il mio pianto. Io piango per me che non vi appartengo. Non voglio scrivervi mai più, non so usare il vostro idioma. Le mie parole non vi toccano, armature potenti avete, io sono nuda. Io sono nuda e ho freddo. Le mie braccia dovranno allungarsi e solo così qualcuno mi potrà abbracciare. Sarò io stessa, io sarò a dirmi parole disumane e piene. Sarò io ad ascoltarmi. Io sola.